Comunicato stampa n. 4 del 6 ottobre 2022

ABSTRACT

La grave denatalità del nostro Paese è assunta come pretesto ad incentivare le tecniche di PMA da parte dei ginecologi italiani della SIGO, così da essere richiesto con “urgenza” l’inserimento nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) di tutte le prestazioni finalizzate alla PMA. Ma analizzando i dati, a partire dalla Relazione annuale del Ministro della Salute al Parlamento italiano, si evidenzia la grande sproporzione tra l’ingente spesa che comporterebbe questo inserimento nei LEA e la scarsa efficacia delle stesse tecniche di riproduzione assistita.

La valutazione di merito della PMA deve prendere anche in considerazione gli esiti neonatali con le più frequenti problematiche: nati pretermine, gemellarità anche plurima, basso peso alla nascita, più alta morbilità e mortalità perinatale, maggiori malformazioni.

Viene anche messa in evidenza non solo la scarsissima efficacia di questi trattamenti, sia nella forma omologa che eterologa, nelle donne di età pari o superiore ai 42 anni, ma anche il rischio di mortalità se all’età è associata l’obesità (IMC pari o superiore a 30Kg/m2).

Alla crescente domanda delle coppie infertili di avere figli, piuttosto che offrire anche gratuitamente la PMA con i suoi ingenti costi in vite umane (embrioni sacrificati) ed economici, si ritiene più meritevole il sostegno dello Stato, attraverso l’ammissione nei LEA, dell’istituto della adozione di bambini abbandonati dai loro genitori nel nostro e nei Paesi più poveri. Questo incentivo economico all’adozione, pari almeno al costo di 3 cicli di Fivet eterologa, unitamente allo snellimento delle procedure burocratiche, risponderebbe pienamente all’obiettivo di una genitorialità desiderata e alla cura di bambini altrimenti abbandonati.

La denatalità richiede azioni impegnative su molti fronti, culturali e sociali, per essere fronteggiata con efficacia. La PMA non sembra avere un impatto sufficientemente significativo su di essa, a fronte di tante risorse impegnate ed esiti numericamente scarsi ed anche problematici per la salute dei bambini e delle madri.

 

ARTICOLO COMPLETO

Con il pretesto di dare soluzioni al grave problema sociale della denatalità, i ginecologi italiani che lavorano nei Centri di fecondazione extracorporea, spingono l’opinione pubblica e i politici ad incrementare il ricorso a queste tecniche che risolverebbero l’infertilità crescente nelle donne e nelle coppie italiane. Peccato invece che, a fronte di un crescente numero di coppie che vi ricorrono, la percentuale di coloro che riescono ad ottenere un “figlio in braccio” raggiunge complessivamente soltanto il 17,38% (ultima Relazione del Ministero della Salute sulla applicazione della L.40/2004 del 12.01.2022, dati relativi al 2019)! Diciamo “soltanto”, perché se consideriamo i numeri assoluti registrati nell’anno 2019 delle coppie (67.633), degli embrioni totali sacrificati (158.617 di cui 73.722 dopo trasferimento in utero), degli embrioni in sovrannumero crioconservati (67.072), appare evidente la sproporzione dei costi in vite umane ed economici rispetto ai risultati ottenuti in questi anni (vedi anche tabella 9 allegata).

Ma per una completa valutazione di merito occorre anche considerare quello che solitamente non viene riportato nella comunicazione mediatica, ossia gli esiti qualitativi della PMA, le problematiche neonatali molto più frequenti in questi casi rispetto ai nati per fecondazione naturale, come riassunto schematicamente nella tabella 11 allegata.

Se tutte le prestazioni finalizzate alla FIVET venissero ammesse nei LEA, così come richiedono con “urgenza” i ginecologi italiani, per ogni coppia, lo Stato dovrebbe elargire Euro 2.750 per ciclo di “omologa” (questo costo è stato approvato dal Ministero della Salute il 13.05.2022), con la possibilità di effettuare un massimo di 3 cicli per coppia (e la maggioranza delle coppie si sottopone a più di un ciclo). Sicuramente verrebbe prevista una spesa superiore ai 3000 Euro per la forma “eterologa” (l’attuale costo “in privato” secondo quanto riportato da “Medicina della Riproduzione”, è di Euro 4.500 con la donazione di spermatozoi, Euro 6.500 con ovodonazione/embriodonazione). Ma per queste forme “eterologhe” le tariffe non sono state ancora definite da parte del Ministero della Salute.

Si può pertanto dedurre con buona approssimazione l’ammontare della spesa totale annuale, solo per le forme “omologhe”, sulla base dei dati dell’ultima Relazione ministeriale per l’anno 2019. Se il numero dei cicli effettuati per la fecondazione “omologa” è stato di 50.324 per quella “a fresco” e di 23.157 per quella con scongelamento di ovociti ed embrioni, per un totale di cicli pari a 73.481, la spesa totale corrisponderebbe a Euro 202.072.750. E soltanto per la forma “omologa”! Nel 2019 sono stati anche effettuati in totale 8.955 cicli di fecondazione “eterologa”. Se, per auspicata ipotesi (includendo generosamente anche i costi per la crioconservazione degli ovociti e degli embrioni e quelli per la diagnosi pre-impianto) la spesa per un ciclo di questa forma di FIVET fosse di Euro 3.000, si aggiungerebbero ulteriori Euro 26.985.000! Si comprende allora, da un lato, la grande sproporzione tra questo auspicato ma ingente investimento statale e lo scarso risultato delle stesse tecniche che ha permesso la nascita di 12.797 bambini, pari soltanto al 3,04% di tutti i nati (420.084) dell’anno 2019! Dall’altro lato, si capisce tutto l’interesse economico che muove i ginecologi italiani impegnati in questa attività.

Ma le Relazioni del Ministro della Salute al Parlamento italiano sulla applicazione della Legge n.40/2004, oltre a questi dati generali riportati nella tabella 9 che negli anni vengono confermati come particolarmente preoccupanti, e a quelli degli esiti di salute per i bambini nati con queste tecniche come riassunte nella tabella 11 (maggior numero di gemellarità anche plurime, di parti pretermine, di basso peso alla nascita, di malformazioni, di morbilità e mortalità perinatale), se ne rilevano ancora altri sul versante materno, tali da far ritenere inammissibile la inclusione di queste tecniche (non certamente terapie!) nei LEA.

Infatti, la dimostrata e confermata peggiore inefficacia delle tecniche di fecondazione extracorporea omologa ed eterologa per le donne appartenenti alle classi di età uguali o superiori ai 42 anni non dovrebbe rendere ammissibile la loro inclusione nei LEA; ancor più per le donne con IMC (indice di massa corporea) uguale o superiore a 30 Kg/m2 e/o con età uguale o superiore ai 42 anni, che hanno un rischio aumentato di morte.

A tale riguardo, nell’ultima Relazione viene omessa la notizia riportata nel Primo Rapporto ItOSS. Sorveglianza della Mortalità Materna negli anni 2013-2017, pubblicato nel 2019 dall’Istituto Superiore della Sanità, nel quale a pagina 19 si legge “Oltre all’obesità un’altra condizione frequente tra le donne decedute è il ricorso alle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA). L’11,3% delle morti materne (12/106) riguarda donne che hanno concepito mediante tecniche di PMA (6 ICSI, 5 FIVET e 1 tecnica non nota). La percentuale di morti materne associate a PMA rilevata dal Sistema di sorveglianza del Regno Unito è pari al 4%, molto più bassa di quella italiana. La proporzione di gravidanze ottenute mediante tecniche di PMA è invece analoga nei due Paesi, pari a circa il 2% (5, 7, 8) e pertanto non giustifica la diversità nella frequenza degli esiti. L’unica differenza che sembra associabile alla minore proporzione di morti materne nel Regno Unito riguarda la norma vigente in quel Paese in base alla quale il Servizio Sanitario pubblico non offre PMA alle donne con IMC ≥ 30 Kg/m2 e/o età ≥ 42 anni. Controllando tali caratteristiche nelle donne decedute in Italia emerge che 7/12 hanno IMC ≥ 30Kg/m2 e 4/12 un’età ≥ 42 anni. Alla luce di questi dati riteniamo opportuno considerare anche nel nostro Paese una possibile regolamentazione dei criteri di accesso alle tecniche di PMA nel Servizio sanitario pubblico. La revisione dei casi segnalati alla sorveglianza ItOSS ha infatti evidenziato alcune criticità quali, per esempio, due donne che avevano concepito mediante PMA e che sono decedute per tromboembolia, una dopo un aborto spontaneo in gravidanza gemellare a 42 anni di età e con IMC = 39 Kg/m2 e una seconda deceduta alla 19esima settimana di gravidanza all’età di 43 anni e IMC = 31 Kg/m2. Il 55,4% delle donne decedute è nullipara e 10 delle 106 gravidanze esitate in morte materna sono multiple, 8 delle quali a seguito di concepimenti da PMA.”

Esporre, dunque, donne di età uguale o superiore ai 42 anni ed obese, ad un reale rischio di morte, a fronte poi di un risultato molto scarso di maternità mediante PMA, è evidentemente un azzardo per nulla giustificabile a danno della salute delle stesse donne, e che il nostro SSN non dovrebbe permettere.

Riteniamo dunque che, a fronte di una crisi demografica gravissima per la bassissima natalità, e in presenza di una concomitante grave situazione economica, lo Stato non possa rendere disponibili ingenti risorse economiche attraverso l’inserimento nei LEA di trattamenti scarsamente efficaci e talora pericolosi come la PMA in tutte le sue forme.

È invece doveroso ed improcrastinabile che le coppie che cercano di adottare bambini abbandonati dai loro genitori in Paesi poveri possano essere aiutati per legge con un rimborso spese pari almeno al costo di 3 cicli di PMA eterologa. Queste adozioni meritano di essere inserite al più presto nei LEA, perché oltre a poter dare alle coppie la gioia di avere dei figli, offrono il calore di una famiglia a tanti bambini abbandonati, senza esporre a morte certa l’88,62% dei loro fratellini concepiti in provetta per poter vedere la luce del sole!

La grave denatalità può essere affrontata con efficacia soltanto con serie “misure” e provvedimenti che incidano concretamente sul piano sociale e culturale favorendo la genitorialità naturale, tanto compromessa dalle oggettive difficoltà per le coppie di avere una loro autonomia ed autosufficienza di mezzi; come pure, sul piano culturale e di costume, dal ricorso all’aborto volontario e alla contraccezione d’emergenza che rivelano il radicarsi di una mentalità anti-vita.

 

 

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